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Grande sertão: quando il diavolo si nutre di dubbi.

  • yrivistaculturale
  • 8 feb 2023
  • Tempo di lettura: 5 min



È possibile trovare un modo per separare nella maniera più netta, drastica e definitiva possibile il bene dal male? Leggendo le pagine di “Grande sertão”, il più fortunato romanzo dello scrittore portoghese João Guimarães Rosa, si direbbe proprio di no. Si direbbe che qualunque opposizione binaria e che qualunque ingente dualismo rappresenti un’avventata costruzione della società contemporanea, si direbbe che una rigida classificazione degli uomini e delle donne che fanno parte di tale società risulti inevitabilmente artificiosa e che, forse, l’unica consapevolezza empiricamente raggiungibile da ciascuno di noi sia proprio che l’animo umano è per sua natura contradditorio, ambivalente e indefinibile. Ma andiamo con ordine.

Se ad oggi la maggior parte dei critici e dei lettori di tutto il mondo concordano nel definire “Grande sertão” uno dei più grandi, se non il più grande romanzo in lingua portoghese del XX secolo, in pochi sanno che originariamente … non doveva neppure essere un romanzo. Dopo che nel 1946 João Guimarães Rosa aveva raggiunto la fama grazie a Sagrana, celebre raccolta di racconti ambientati nel sertão (una vasta ed arida regione del Brasile), egli coltivò il sempre più impellente desiderio di raccontare nuove storie che si svolgessero nei medesimi luoghi, affascinato probabilmente dalla natura selvaggia e idilliaca di quei territori dove egli stesso era nato e cresciuto prima di trasferirsi a Belo Horizonte. La sua carriera di medico e di diplomatico lo spinse a procrastinare per ben dieci lunghi anni tale proposito ma alla fine egli decise una volta per tutte di ritagliarsi il tempo necessario allo scopo di concretizzare la propria ambizione, ed iniziò così a lavorare ad un manoscritto intitolato “Corpo di ballo” all’interno del quale era racchiusa, tra decine di altre, una novella in grado di raccontare in modo inedito l’amicizia tra due veementi jagunços di un’epoca passata. L’eterogeneità dello schema narrativo tuttavia, unita alla pluralità degli argomenti affrontati e alla conseguente complessità filosofica alla base del racconto, costrinsero ben presto l’autore a rivedere i propri piani trasformando quella che doveva essere una breve storia in un romanzo di quasi cinquecento pagine: Grande sertão venne pubblicato dall’editore José Olympio nel 1956, a pochi mesi di distanza da Corpo da Ballo. Fin da subito l’opera destò reazioni profondamente diverse tra chi ne apprezzava lo stile pittoresco e simbolico e chi ne soffriva la natura spiccatamente allegorica, una divisione che si sarebbe protratta nei decenni successivi al punto che tutt’ora verrebbe quasi da dire che malgrado l’oggettiva grandezza di “Grande sertão” esso non possa ugualmente venir considerato come un romanzo adatto a un pubblico irragionevolmente differenziato. Chissà, forse è stato proprio questo uno dei motivi per cui tale opera è stata oggetto di una considerazione decisamente meno lusinghiera rispetto ai capolavori di altri maestri della letteratura latino americana; essa infatti non possiede certo il malinconico lirismo dei manoscritti di Garcia Marquez, né l’ispirata raffinatezza delle opere di Carlos Fuentes, il gusto surrealista dei capolavori Jorge Amado, l’icasticità postmodernista degli ultimi testi di Borges o il senso del ritmo letterario presente nelle storie di Bolaño. Fin dalla scelta del protagonista, al contrario, Guimarães Rosa palesa una sorta di vocazione nel dar voce a un archetipo di antieroe tanto consapevole della realtà che lo circonda quanto incapace di trarne una concezione lineare in grado di soddisfarlo; egli è un anziano signore scarsamente istruito (“Io sono soltanto un uomo del sertão, in queste alte idee navigo male. Sono molto pover’uomo. Invidia sincera io provo per alcuni come vossignoria, con tanta lettura e somma dottorazione”, Grande sertão, Milano, Feltrinelli, 2017, p. 15), confuso da apparentemente irrisolvibili dilemmi morali (“La vita è ingrata nel suo tenero; ma traduce la speranza anche in mezzo al fiele della disperazione. Questo mondo è molto mescolato …” pag.185) e con un costante e forse ingenuo impulso di compensare tali limiti affidandosi a chi, al contrario, non solo gode di un’invidiabile cultura ma addirittura –almeno dal suo punto di vista- del possesso di una serie di verità assolute perfino in rapporto ai temi più mistici e spirituali su cui un uomo possa mai ritrovarsi ad indugiare. È il caso del misterioso “vossignoria” al quale si rivolge per la totalità del romanzo affidandovi le proprie più sorprendenti rivelazioni e i propri scottanti segreti; un uomo che tuttavia non solo, probabilmente, è incapace di recare conforto a Riobaldo rispondendo in modo chiaro e univoco ai suoi assillanti interrogativi, ma si trova a sua volta vittima di un ulteriore quesito reso inevitabile proprio dalle atrocità rivelategli dal narratore: quali sono i confini morali oltre i quali un uomo non può più spingersi se non vuole smettere di essere considerato tale? Una domanda che i lettori condivideranno inevitabilmente con lui e che si farà tanto più viva quanto più il racconto delle peripezie del protagonista entrerà nel vivo, al punto da spingerci perfino ad asserire che forse, nelle intenzioni dell’autore, il taciturno vossignoria non è altro che il lettore stesso, intento ad ascoltare una storia che per quanto possa appassionarlo sarà del tutto inidonea a permettergli di trarre una conclusione definitiva sull’effettiva natura dell’etica umana.

Beffardamente si potrebbe dire che l’unico ambiente in cui la produzione letteraria di Joao Guimaraes Rosa ottenne un plauso unanime fu all’interno della prestigiosa Accademia Brasileria de Letras, la quale dopo aver minuziosamente visionato il libro ammise a far parte dell’associazione l’ormai celebre scrittore, il tutto senza che durante le votazioni emergesse un solo voto contrario. Beffardamente, perché solo tre anni dopo l’autore morì a causa di un arresto cardiaco, senza aver avuto il tempo di godere appieno del coronamento del grande sogno della propria vita.

Fu proprio il combinato disposto dei lusinghieri riconoscimenti e delle coinvolgenti discussioni sorte intorno al libro a spingere nel 1970 la Feltrinelli a portare il romanzo in Italia, affidandosi all’esperienza e alla conoscenza della lingua portoghese di Edoardo Bizzarri per la traduzione (una traduzione alla quale non ne sarebbero seguite di nuove negli oltre cinquant’anni successivi). La trasposizione in italiano, pur non immune da tutti quegli anacronismi resi inevitabili dal passare del tempo, è tutt’ora in grado di preservare la complessità dell’opera permettendoci di cogliere le sfumature semantiche di quest’inedita epopea popolare, impresa tutt’altro che scontata vista la complessa alternanza, nel testo originale, di paragrafi il cui stile idiomatico e avvolgente sembra porre l’accento sulla natura folcloristica dei suoi personaggi con altri in cui al contrario a prevalere è un sentimentalismo evocativo dalla neppure troppo velata ispirazione omerica.

Proprio quest’ultima bipartizione stilistica, sembra aprire la strada ad un ultimo e più basilare parallelismo: quello tra una società feroce e tristemente dominata dai suoi istinti più primordiali ed un’ambiente che pur facendo da sfondo all’espressione di ciascuno di tali istinti mantiene ugualmente la sua natura magica ed astratta; nonostante il titolo stesso del libro sia in sé un riferimento geografico, il sertão non appare dunque come un protagonista attivamente in grado d’interferire con le dinamiche umane quanto come un testimone silenzioso di esse, la cui presenza col trascorrere delle pagine viene sempre più soggiogata dalla ben più permeante dimensione del sentire e del fare. La costante impotenza di questi aridi bassopiani ci spinge di conseguenza a chiederci se l’inferno non consista proprio in ciò: una sterminata regione che osserva i mali del mondo senza essere in grado di prevenirli, anzi, si potrebbe perfino azzardare che forse il sertão non è altro che un inferno tropicale, seducente e al tempo stesso infido, destinato a distinguersi dagli anfratti più nefasti dell’aldilà solamente a causa del fatto che, assai banalmente, non occorre morire per visitarlo. Tale sospetto sembra avvalorato proprio dalla peculiarità per cui tanto il prologo quanto l’epilogo del romanzo sono dedicati ad uno stesso e altrettanto laconico personaggio, il diavolo, quasi come se le mille peripezie accadute negli anni e tanto appassionatamente narrate da Riobaldo non avessero in alcun modo il potere di distogliere lo sguardo dell’autore da questo imperituro signore del suo Sertao-inferno. Finché una simile convergenza, pur tra mille domande irrisolte, ci spinge ugualmente a trovare un’unica risposta inequivocabile: quella che è il diavolo il vero protagonista di questo romanzo e che fin dall’inizio non sarebbe stato possibile trovarne uno diverso.

Beatrice Villa.

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