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La società contemporanea e la sua triste incapacità di aggiustare ciò che si è rotto.

  • yrivistaculturale
  • 19 gen 2022
  • Tempo di lettura: 3 min

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Sarebbe superfluo e forse perfino ridondante enumerare i mille e più limiti dell’uomo moderno nonché le sue infinite contraddizioni o le tante colpe individuali e collettive che hanno progressivamente affossato la bellezza del mondo in cui viviamo. Eppure fra gli innumerevoli problemi su cui potremmo riflettere ne esiste uno che più di tutti sembra avere delle conseguenze dirette e immediate sulla nostra quotidianità e che in quanto tale, col trascorrere degli anni, più che a un semplice problema inizia a rassomigliare sempre più a un autentico dramma generalizzato, un dramma la cui invisibilità ne costituisce anche, per certi versi, l’intrinseca infimità.

Non saprei in grado di dargli un nome. Solitamente quando si affronta un ostacolo collettivo adoriamo rinominarlo con una formula di poche lettere o tutt’al più di qualche parola in grado di offrirci la consolatoria convinzione che esso sia un qualcosa di semplice, minimale, perfino di gestibile; questo artificio della semantica tuttavia non si applica in alcun modo al dramma di cui stiamo parlando oggi perché esso, come tutti i VERI problemi, non ha un nome tutto suo. Se dovessi descriverlo, in effetti, non partirei neppure da un’autentica descrizione quanto da una leggenda …

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Si racconta che nel XV secolo l’allora Shogun di Ashikaga, Yoshimasa, ruppe involontariamente una tazza di tè alla quale teneva particolarmente; disperato egli la inviò in Cina affinché venisse riparata. Una volta tornata indietro però la tazza non appariva più uguale a prima: le legature metalliche erano in bella mostra e in generale l’effetto estetico era tutt’altro che gradevole. Lo Shogun decise allora di rivolgersi a degli artigiani autoctoni i quali al contrario non provarono a riparare il prezioso oggetto ma a trasformarlo in un gioiello riempendo le crepe con resina laccata e polvere d’oro dando così il via a quella che sarebbe passata alla storia come la “tecnica del Kintsugi”.

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Considerata la complessiva prosperità del Giappone dell’epoca è opinione comune della maggior parte degli esperti che tale leggenda sia storicamente fondata, eppure l’interrogativo che nasce spontaneo porsi innanzi a un episodio simile è se oggi noi siamo realmente in grado di trarre ispirazione da essa e di riuscire a trasformare la tecnica del Kintsugi in una sorta di metafora della nostra esistenza. La risposta più immediata è che probabilmente, salvo una ristretta minoranza di noi, siamo ben lontani dal riuscire ad emulare la saggezza e l’ingegno di quegli artigiani giapponesi ed in questo risiede anche il vero problema della nostra epoca.

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L’arte del Kintsugi non consiste, d’altronde, nel superare gli ostacoli o nel resistere ad essi quanto nel trasformali in opportunità. Non è paragonabile ai banali concetti di stoicismo che vengono spesso inculcati nelle masse o al più limitativo concetto di “resilienza” tanto di moda ai giorni nostri. È piuttosto una capacità basata sul provare a divenire un tutt’uno coi nostri problemi fino a subirne il fascino e forse perfino a cercarne di nuovi, a condizione beninteso che essi possano offrirci inedite opportunità di crescita e di miglioramento. L’uomo di oggi ha perso la capacità di inserire polvere d’oro laddove gli altri vedono solo crepe: ha perso, o forse non ha mai avuto, la fantasia che dovrebbe nascere dalle criticità nonché il suo desiderio di curare le fratture interiori con il rinnovamento della propria coscienza limitandosi invece ad una generica e superficiale speranza che esse si cicatrizzino da sole; in altre parole l’uomo del XXI secolo non ha mai voluto né potuto acquisire l’unica tecnica realmente in grado di permettergli non solo di superare le proprie avversità ma addirittura di non considerarle più tali ed in questo, volendo forzare il sunto, risiede l’essenza più profonda di tutti i suoi problemi e di tutte le sue angosce.

Battista Ferraro.


 
 
 

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