Un’odissea cambogiana e il suo triste finale.
- yrivistaculturale
- 23 gen 2022
- Tempo di lettura: 5 min

Era il 1980 quando un uomo sulla quarantina dai capelli corvini e i lineamenti orientali giunse negli Stati Uniti. Proveniva da un campo di rifugiati in Thailandia dove aveva lavorato per oltre un anno ma ovviamente non era quello il suo Paese d’origine né tantomeno il luogo da cui stava fuggendo: Haing S. Ngor, questo il suo nome, era originario della Cambogia dove per anni aveva subìto le persecuzioni e i soprusi dei Khmer rossi. La sua vita curiosamente non era sempre stata triste e nefasta come quella della maggior parte dei profughi, fino a pochi anni prima egli era stato un brillante e stimato chirurgo con accanto una moglie devota accanto alla quale condivideva le proprie giornate a Phnom Penh, la movimentata capitale della nazione. Sfortunatamente però nel 75 il feroce rivoluzionario Pol Pot assunse il controllo dell’intero Paese braccando spietatamente chiunque si opponesse a lui o ai suoi ideali; di per sé nella nuova Cambogia comunista il fatto di esercitare la professione medica non era considerato un reato, ciò che al contrario veniva considerato imperdonabile era il fatto di ricevere un’istruzione al di fuori del partito comunista: una colpa di cui ovviamente Haing S. Ngor si era macchiato da tempo. Per anni il chirurgo tentò di nascondere al mondo la propria estrazione sociale e le proprie nozioni culturali: smise di esercitare come medico e decise perfino di buttar via i propri occhiali da vista temendo che questi potessero tradirlo; a causa dell’esperimento “anno zero” (il sostanziale tentativo di epurare quanto rimaneva della società cambogiana prerivoluzionaria) queste accortezze non gli furono sufficienti a evitare i campi di prigionia ma almeno riuscirono a sottrarlo a guai peggiori. La situazione tuttavia precipitò ulteriormente quando sua moglie, incinta di nove mesi, si ritrovò ad affrontare delle gravi complicanze mentre tentava di mettere alla luce il proprio bambino: Haing grazie alle sue competenze avrebbe facilmente potuto aiutarla ma così facendo si sarebbe inevitabilmente tradito rivelandosi come medico e finendo col condannare se stesso, sua moglie e il suo nascituro figlio ad un’atroce esecuzione: fu costretto a non fare nulla restando immobile mentre la donna che amava e il figlio che portava in grembo morivano lentamente. Prima che ciò accadesse tuttavia volle fare un’ultima promessa a quelle due anime dalle quali il destino lo stava prematuramente separando: promise che qualunque cosa sarebbe successa e per quanti ostacoli potessero frapporsi fra lui e tale scopo, prima o poi avrebbe fatto sì che tutto il mondo sapesse cosa stava accadendo in Cambogia.

Ovviamente all’inizio non fu facile tener fede alla parola data, fu soltanto con la caduta dei Khmer rossi che lo stoico chirurgo ebbe finalmente l’occasione di fuggire dapprima in Thailandia e in seguito, come detto, negli Stati Uniti, dove ben prestò trovò dimora presso il quartiere Chinatown di Los Angeles. Non volle risposarsi e per molto tempo non ottenne neppure l’autorizzazione necessaria per tornare a esercitare come medico: la sua vita sembrava indirizzata verso una piatta e noiosa monotonia quando un giorno, nonostante non avesse alcuna esperienza come attore, venne contattato da un altrettanto inesperto regista di nome Roland Joffé che esattamente come lui non aveva mai lavorato a un film in vita sua. Joffé sembrava fortemente motivato a girare un lungometraggio basato sulla storia realmente accaduta di un giornalista statunitense e del suo interprete cambogiano durante i tragici giorni in cui il regime comunista era salito al potere nella nazione: nel cast ci sarebbero stati attori del calibro di Sam Waterston e John Malkovich eppure, per il ruolo dell’interprete il regista aveva pensato a qualcuno che avesse realmente vissuto quel triste periodo della storia cambogiana e che in qualche modo potesse immedesimarsi fino in fondo nel personaggio in questione, la scelta ricadde su Haing. Inizialmente questi rifiutò l’offerta ma in seguito ebbe modo di ripensare a quella promessa fatta alla moglie ormai molti anni prima a Phnom Penh e comprese che in fondo partecipare alle riprese di un film di quel tipo poteva essere un ottimo modo per raccontare le tante ingiustizie che avevano afflitto il suo Paese negli ultimi anni. Decise di accettare.

Urla del silenzio, questo il titolo dell’opera, si rivelò un successo assoluto: il film ottenne ben sette nomination all’oscar vincendo tra le altre nella categoria per la miglior fotografia e per il miglior montaggio; Haing S.Ngor dal canto suo non solo riuscì a vincere l’oscar come miglior attore non protagonista ma perfino il Bafta e il Golden Globe nella medesima categoria: un trionfo oltre ogni previsione!

Sfruttando la visibilità raggiunta Roland Joffé riuscì ad ottenere la direzione di un film per certi versi ancor più ambizioso interpretato da Robert De Niro, Jeremy Irons e Liam Neeson con il quale due anni dopo avrebbe vinto la palma d’oro a Cannes … ovviamente, stiamo parlando di Mission. L’attore-chirurgo dal canto suo non sembrò particolarmente ansioso di approfittare dell’inevitabile fama che aveva conquistato grazie alla sua magistrale interpretazione: preferì piuttosto trascorrere una vita tranquilla accettando solo di tanto in tanto di lavorare come attore in alcune serie televisive e in alcuni film hollywoodiani (da menzionare la sua partecipazione in “Tra cielo e terra” di Oliver Stone) e quasi sempre in ruoli minori; piuttosto la maggior parte delle proprie energie sembrarono destinate alla stesura della propria autobiografia: un racconto sincero e appassionato di quella che era stata la propria tragica e al tempo stesso incredibile esistenza fino a quel momento … “Un’odissea cambogiana”.

Sarebbe stato bello se quest’inedita odissea avesse potuto avere un lieto fine ma purtroppo così non è stato. La notte del 25 febbraio 1996 infatti Haing venne raggiunto non distante dal suo appartamento da una banda di strada i cui membri avevano quasi tutti diversi precedenti penali; secondo la versione ufficiale, o perlomeno secondo quanto raccontato dai banditi, questi gli avrebbero ordinato di consegnare dapprima il suo rolex ed in seguito un monile contenente la foto della sua defunta e mai dimenticata moglie; al rifiuto di Haing di cedere quest’ultimo oggetto i criminali avrebbero aperto il fuoco ferendolo mortalmente. Purtroppo però del monile in questione nessuno ha mai saputo nulla: al contrario è interessante notare come nella fatidica notte l’attore cambogiano avesse con sé una cifra di quasi 3.000 dollari in contanti che nessuno dei suoi aggressori tentò in alcun modo di sottrarre, un atteggiamento alquanto curioso per degli uomini intenzionati a compiere una rapina …
Il sospetto avanzato da molti esperti è che quello del furto non fosse il vero movente ma che Haing sia stato ucciso per ragioni politiche da un gruppo di simpatizzanti del regime cambogiano, magari chissà, proprio per le numerose e dirette critiche espresse dall’attore negli ultimi anni all’indirizzo del governo del suo Paese. Alcuni anni dopo un’apparente svolta sembrò emergere dalle indagini quando dopo la fine della dittatura la nuova classe dirigente di Phnom Penh istituì un tribunale speciale finalizzato a far luce su quanto accaduto durante gli anni del regime; in particolar modo un importante uomo politico dell’epoca, Kang Kek Lew, rivelò che Haing era stato assassinato per ordine dello stesso Pol Pot il quale non aveva gradito la partecipazione del suo compatriota a un film controverso come Urla del silenzio. Sfortunatamente nessuna di queste teorie è mai stata dimostrata così al tragico finale di Haing bisognò aggiungere perfino la grottesca e dolorosa consapevolezza che nessuno avrebbe mai conosciuto le vere ragioni per cui era stato assassinato.

In fondo la vita di questo singolare e incredibile uomo è stata soprattutto questo, una letale alternanza di ingiustizie e di episodi privi di senso; eppure proprio la sua naturale capacità di resistere a ciascuna di queste disgrazie e di uscirne più forte di prima ne hanno anche costituito la grandezza ed è questo il motivo per cui in fondo la sua esistenza per quanto ricca di avversità, persecuzioni e sofferenze, alla fine, non è stata inutile.
Veronica Messina.



Commenti