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Angkor Wat: un capolavoro valorizzato abbastanza?

  • yrivistaculturale
  • 5 ott 2021
  • Tempo di lettura: 5 min

Narra un’antica iscrizione che Suryavarman II, Re dell’impero Khmer, a differenza della maggior parte dei suoi pari ruolo non assunse il potere tramite una normale successione dinastica ma con la proverbiale forza bruta: pare, sempre secondo tale iscrizione, che un giorno egli balzò in cima all’elefante di suo zio Dharanindravarman e con inusitato sprezzo del pericolo uccise l’odioso parente deturpandone il trono. Sebbene tale leggenda sia quantomeno discutibile sul piano della veridicità storica, bisogna tuttavia riconoscere che effettivamente Suryavarman non solo guidò un potente e invincibile impero ma lo portò perfino ad espandersi ulteriormente; dopo essere salito al trono infatti il carismatico sovrano ebbe modo grazie alla preziosa alleanza con i popoli Cham di sottomettere la Malesia e gran parte dell’odierno Vietnam fino a quando, non riuscendo evidentemente a trovare nuovi nemici, decise di fare la guerra ai suoi vecchi alleati Cham: decisione quantomai infausta considerando che durante una battaglia contro quest’ultimi venne mortalmente ferito ponendo così fine alla propria gloriosa esistenza.

Tutto questo dovrebbe dunque spingerci ad associare la figura dell’antico sovrano a quella di un uomo brutale, cinico e costantemente incline alla rissa? Non esattamente, o perlomeno si direbbe che egli oltre alla guerra aveva anche ben altri interessi tra cui spiccava in particolare un’innata passione per l’arte. Contrariamente alle abitudini di ciascuno dei suoi predecessori Suryavarman fu il primo sovrano Khmer a lasciarsi ritrarre chiedendo a un pittore del luogo di raffigurarlo con un diadema a punta in testa, dei ciondoli alle orecchie e un serpente morto in mano … sebbene le ragioni esatte della presenza di quest’ultimo dettaglio, posto che siano mai esistite, rimangono tutt’ora ignote.

Ad ogni modo ancor più che come posatore di ritratti il Sovrano passò alla storia per un’altra assai più lodevole attività, quella di aver dapprima ordinato ed in seguito supervisionato i mastodontici lavori (le fonti dell’epoca riportano che sono stati impiegati 300.000 operai e 600 elefanti!) per la costruzione di un edificio con l’ambizione di rappresentare il Monte Meru -l’equivalente induista dell’Olimpo- superando in bellezza le opere costruite da ciascuno dei propri antenati; avrebbe creato, in altre parole, quello che è tutt’ora considerato il più grande monumento religioso al mondo, l’Angkor Wat. Questo beninteso secondo il modesto punto di vista degli storici d’arte di tutto il mondo, poiché secondo le leggende dell’epoca in realtà il tempio non sarebbe stato costruito da altri che da Indra, il Dio del temporale e della pioggia, il quale avrebbe incaricato un architetto divino di progettare il maestoso palazzo affinché suo figlio Precha Ket Mealea potesse un giorno abitarvi, salvo costruirlo in un’unica notte. Altri ancora sostengono invece che quello in questione non fosse neppure un vero tempio quanto piuttosto un mausoleo nel quale, alla sua morte, i sudditi di Suryavarman avrebbero dovuto pregare per lui una teoria, questa, supportata dal fatto che contrariamente alla stragrande maggioranza dei monumenti religiosi Khmer l’edificio in questione è rivolto ad Ovest, il punto cardinale che secondo le culture asiatiche simboleggerebbe la morte. Quale che fosse la genesi o la finalità del Angkor Wat ciò che è certo è che inizialmente esso venne utilizzato dalla popolazione del luogo come un tempio induista venendo dedicato al potente Dio Visnù, sebbene di lì a poco più di un secolo la conversione dei popoli cambogiani al Buddhismo Theravada portò il monumento a subire lo stesso destino e a venire utilizzato, per l’appunto, come un tempio buddhista. Proprio la spiritualità emanata dal luogo avrebbe portato fin dall’epoca rinascimentale diversi monaci provenienti dai luoghi più remoti a visitare il monumento, tra di essi ricordiamo una corposa pattuglia di pellegrini giapponesi i quali vi stabilirono un piccolo insediamento lasciando tra l’altro come testimonianza del proprio passaggio delle iscrizioni sulle pareti tutt’ora visibili a occhio nudo. Non che il tempio abbia cessato di attrarre visitatori appartenenti a culti religiosi differenti o animati, se così si può dire, da finalità assai meno spirituali e assai più eterogenee; non è un caso se nel corso dei secoli diversi furono i visitatori provenienti dall’Europa e dal mondo occidentale i quali dopo aver visitato le tante bellezze del posto non poterono far a meno che esaltarne il valore artistico; tra di essi non possiamo far a meno di ricordare uno dei primi in assoluto, il Monaco portoghese Antonio de Magdalena il quale una volta di ritorno dal viaggio non ebbe remore a descrivere l’Angkor Wat come “quanto di più raffinato il genio umano possa immaginare.”

In effetti è incredibile notare come perfino a distanza di così tanto tempo dalla sua costruzione il tempio riesca a conservare un duplice e inesauribile fascino: da un lato infatti è impossibile non notare perfino da distanze siderali l’imponenza e la simmetria architettonica presentata dal complesso, dall’altro è difficile non rimanere sedotti dai tanti piccoli e apparentemente trascurabili dettagli in grado di arricchire l’Angkor Wat. Quale visitatore, ad esempio, non guarderebbe con ammirazione e perfino con un briciolo di sbigottimento le oltre 3.000 ninfe celesti scolpite sulle pareti, ciascuna delle quali diverse dall’altra e ciascuna con una capigliatura differente? Chi non rimarrebbe estasiato innanzi all’enorme (è alta oltre tre metri) statua di Vishnu in blocco di arenaria o incuriosito innanzi alle ciocche di capelli che i giovani sposi lasciano di lì a poca distanza come segno di ringraziamento per la buona sorte? E chi non resterebbe per ore a contemplare il rettangolare fossato esterno, senza il quale probabilmente l’intero sito sarebbe stato già da secoli divorato dall’avanzamento della giungla circostante?

Eppure, per quanto tale complesso possa ad oggi rappresentare un grande motivo d’orgoglio non solo per la popolazione cambogiana ma forse per il mondo intero, al tempo stesso esso rappresenta per gli amanti d’arte e d’architettura di tutto il globo una fonte di profonda preoccupazione. Già perché se da un lato fino a gran parte degli anni 90 il tempio è rimasto incredibilmente sconosciuto alla maggior parte dei turisti di tutto il mondo facendo registrare un numero realmente basso di visitatori annuali, a partire dalla fine del XX secolo esso è divenuto una delle destinazioni predilette da parte dei viaggiatori di tutti i continenti spinti forse, tra le altre cose, dal fatto che Angkor Wat sarebbe stata tra le ventuno finaliste nella speciale selezione della New Open World Corporation delle 7 meraviglie del mondo moderno, oltre ovviamente a divenire patrimonio dell’Unesco. Tale buona notizia è stata tuttavia almeno in parte rovinata dal fatto che il massiccio arrivo di nuovi visitatori ha generato ben presto non pochi disagi logistici e perfino danni permanenti alla struttura, tra cui alcuni graffiti sulle mura della stessa. Naturalmente sono state molte le iniziative intraprese dal governo di Phnom Penh per debellare il problema eppure quelle stesse soluzioni che probabilmente potrebbero apparire sufficienti per preservare opere secondarie o di minore bellezza non possono invece essere considerata abbastanza laddove lo scopo è preservare quello che era e rimane tutt’ora uno dei più grandi capolavori mai creati dall’uomo; il che ci spinge a chiederci ad alta voce e con profonda partecipazione se in futuro non sia possibile fare di più.

Pierangelo Conti.




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